domenica 21 settembre 2025

GIULIO NATTA (1903-1979)

 

    Giulio Natta nacque a Porto Maurizio il 26 febbraio 1903 da un magistrato e da Elena Crespi, che ne curò l’educazione. Diplomatosi nel 1919 al liceo classico di Genova, nel 1921 si iscrisse a ingegneria industriale al Politecnico di Milano, dove si laureò in chimica industriale nel 1924 con Giuseppe Bruni. Assistente di Bruni, dal 1925 insegnò chimica analitica e fisica a Milano, distinguendosi per studi in cristallografia e per lo sviluppo di un processo di sintesi del metanolo in collaborazione con Montecatini. Nel 1932 lavorò a Friburgo con Hugo Seemann, perfezionando tecniche diffrattometriche applicate ai polimeri. Tornato in Italia, conseguì la libera docenza e tenne cattedre a Pavia, Roma e Torino prima di approdare nel 1938 al Politecnico di Milano, dove diresse l’Istituto di Chimica industriale. Durante la Seconda guerra mondiale, sfollato nei dintorni di Milano, proseguì ricerche su gomma butadiene, formaldeide e processi di ossosintesi e contribuì alla costruzione del primo impianto italiano per gomme sintetiche a Ferrara. 



    Negli anni Cinquanta studiò la stereochimica, applicando catalizzatori di Ziegler all’etilene e al propilene: l’11 marzo 1954 ottenne il polipropilene isotattico, brevettato con Montecatini come Moplen. Per la messa a punto dei catalizzatori di Ziegler-Natta fu insignito nel dicembre 1963 del premio Nobel per la chimica insieme a Karl Ziegler. In seguito promosse la nascita di un centro di ricerca in chimica macromolecolare al Politecnico di Milano, formando una vasta scuola di ricercatori e dirigenti. Socio di Accademie nazionali e internazionali, collezionò medaglie, onorificenze e lauree honoris causa, fra cui quelle di Torino e Magonza. Diagnosticato con il morbo di Parkinson nel 1956, continuò l’attività fino al 1973. Morì a Bergamo il 2 maggio 1979 ed è ricordato con scuole e premi a lui dedicati.




80° DELLA FONDAZIONE DELLA DITTA MOLINARI

 

    Emesso il 10 settembre 2025, il francobollo dedicato alla Ditta Molinari 1945 appartiene alla serie “Le Eccellenze del sistema produttivo e del Made in Italy” con valore di tariffa B (1,30 €) e tiratura complessiva di 200 025 esemplari. La vignetta raffigura il logo ufficiale Molinari Italia sovrapposto alla silhouette della celebre bottiglia di Sambuca Molinari, completata dall’acronimo “SM” in rosso e dalla firma del fondatore Angelo Molinari. Sul bordo inferiore campeggia la dicitura “DAL 1945”, mentre in alto si stagliano la scritta “ITALIA” e l’indicazione tariffaria. Il bozzetto, ideato da Molinari Italia e perfezionato dal Centro Filatelico dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A., è stato stampato in rotocalcografia a quattro colori su carta bianca patinata neutra autoadesiva con imbiancante ottico (90 g/m²) e supporto in carta Kraft monosiliconata (80 g/m²). L’adesivo è di tipo acrilico ad acqua (20 g/m²). Le dimensioni misurano 30×40 mm (carta), 26×36 mm (stampa) e 37×46 mm (tracciatura), con dentellatura 11 realizzata per fustellatura. Ogni foglio contiene 45 esemplari, affiancati dalla riproduzione monocromatica del logo MIMIT sulla cimosa, e viene consegnato con annullo primo giorno da Roma. 



    Il francobollo assume valenza commemorativa per i suoi riferimenti diretti alla Ditta Molinari, fondata nel 1945 da Angelo Molinari nel cuore del Friuli, che trasformò una piccola distilleria in una realtà leader nella produzione di liquori d’eccellenza. L’indicazione “DAL 1945” non soltanto segna ufficialmente l’anno di costituzione, ma evoca l’ottimismo e la determinazione con cui le imprese italiane affrontarono la ricostruzione postbellica, dando vita a prodotti capaci di coniugare tradizione artigianale e modernizzazione produttiva. La Sambuca Molinari, protagonista della grafica, rappresenta uno dei primi casi di successo nell’esportazione del Made in Italy nel settore alcolici, rafforzando il prestigio del marchio sui mercati internazionali. L’emissione rientra in un articolato programma di Poste Italiane volto a celebrare le imprese che hanno contribuito allo sviluppo economico e culturale del Paese, sottolineando il ruolo della famiglia Molinari nella promozione della cultura del gusto e nella diffusione dell’italianità nel mondo.



WLADYSLAW ANDERS (1892-1970)

 

    Albert Władysław Anders nacque a Błonie l’11 agosto 1892 in una Polonia sotto dominio russo. Dopo studi al Politecnico di Riga fu richiamato nell’esercito zarista, distinguendosi per ingegno tattico nella Prima guerra mondiale e ottenendo la Croce di San Giorgio. Dopo la rivoluzione russa partecipò come comandante di cavalleria alla guerra sovietico-polacca e completò gli studi militari all’École supérieure de guerre di Parigi, raggiungendo il grado di generale di brigata nel 1934. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale guidò una brigata di cavalleria durante la Campagna di Polonia, venne ferito e fatto prigioniero dai sovietici nel 1939, subendo torture nella Lubjanka di Mosca. Liberato nel luglio 1941 grazie all’accordo Sikorski-Majski, raccolse in Persia decine di migliaia di ex deportati e civili strappati ai gulag sovietici: 13.000 bambini orfani, centinaia di ragazze e 1.500 donne in unità ausiliarie. Qui strutturò ospedali, mense e scuole, e accolse l’orso Wojtek, mascotte del futuro II Corpo Polacco, prima dello sbarco in Medio Oriente e in Italia. 



    Sbarcato in Sicilia e trasferito sul fronte adriatico, Anders guidò il II Corpo alla cruenta vittoria di Montecassino (18 maggio 1944), spezzando la Linea Gustav e aprendo la strada verso Roma. Cooperò con il Corpo Italiano di Liberazione del gen. Utili e la brigata partigiana Maiella, liberò Ancona (16 giugno-18 luglio 1944) con un’accerchiamento e conquistò la costa adriatica fino alle Marche. Nell’autunno 1944 attaccò la Linea Gotica attraverso l’Appennino forlivese, liberando vallate e Predappio, simbolo del regime mussoliniano, pur rinunciando a Forlì per onore alleato. Malgrado lo shock di Yalta e un invito di Churchill a ritirare le truppe, mantenne il suo corpo in linea con l’appoggio dei comandi McCreery, Clark e Alexander, fino all’ingresso vittorioso a Bologna il 21 aprile 1945, partecipando alla battaglia finale insieme agli Alleati. Dopo la resa tedesca si stabilì a Londra, dove entrò nel governo polacco in esilio e, dal 1954, fece parte del “Consiglio dei tre” quale supremo organo dello Stato polacco all’estero. In Italia ottenne le cittadinanze onorarie di Bologna e Ancona, e dopo il 1990 ricevette in patria onori tardivi: vie, piazze, scuole a lui intitolate, emissioni numismatiche e il 2007 proclamato “Anno di Władysław Anders” dal Senato della Repubblica di Polonia. Morì a Londra il 12 maggio 1970 e fu sepolto, per sua volontà, accanto ai suoi soldati nel cimitero militare polacco di Montecassino.




venerdì 19 settembre 2025

ANITA EKBERG (1931-2015)

 

    Anita Ekberg, nata Kerstin Anita Marianne Ekberg a Malmö nel 1931, fu modella e attrice svedese divenuta icona internazionale per bellezza e fisicità; dopo aver vinto Miss Svezia partecipò al concorso Miss Universe 1951 che le aprì la strada per Hollywood dove firmò un contratto da starlet con la Universal, ricevendo lezioni di recitazione e sfarzo del sistema studios ma ottenendo ruoli minori in produzioni come The Mississippi Gambler e Abbott and Costello Go to Mars. La sua carriera cinematografica attraversò gli Stati Uniti e l’Europa: lavorò per Batjac e Paramount, recitò in War and Peace (1956) e in vari film di avventura, commedia e melodramma, alternando produzioni anglo-americane a co-produzioni europee; divenne pin‑up degli anni Cinquanta, spesso al centro dei rotocalchi per relazioni con star e per gesti di grande visibilità pubblica. 



    Il passaggio fondamentale avvenne a Roma: scelta da Federico Fellini per interpretare Sylvia in La Dolce Vita (1960), offrì la celebre sequenza alla Fontana di Trevi con Marcello Mastroianni, scena diventata emblema di un’epoca cinematografica e dell’immaginario internazionale; il film la consegnò alla fama mondiale e la spinse a stabilirsi in Italia, dove continuò a recitare in commedie, peplum, gialli e film d’autore, lavorando con registi e attori europei e americani e rifiutando talvolta di essere ingabbiata nel solo ruolo della diva americana in arrivo a Roma. La sua vita privata fu turbolenta: due matrimoni finiti, relazioni celebri tra cui quella con Gianni Agnelli, controversie con paparazzi e stampa, battaglie legali per la pubblicazione di foto e periodi di difficoltà economiche e di salute negli ultimi decenni; rimase comunque figura popolare, richiamata da Fellini in cameo e celebrata in documenti e omaggi contemporanei. Morta nel 2015 a Rocca di Papa per complicazioni legate a malattie croniche, fu cremata e le sue ceneri riposano in Svezia, come aveva voluto.



SAN GIUSEPPE MOSCATI (1880-1927)

 

    Giuseppe Moscati nacque a Benevento nel 1880 e divenne uno dei medici italiani più noti per l’impegno sanitario, la ricerca scientifica e la carità verso i poveri. Laureatosi con lode nel 1903, svolse l’attività clinica e di laboratorio agli Ospedali Riuniti degli Incurabili di Napoli dove si distinse per studi di chimica fisiologica e clinica, ricerche sul metabolismo del glicogeno, metodiche per la determinazione del sangue nelle nefriti e contributi alla diagnostica biochimica. Fu tra i primi in Italia ad adottare l’insulina per il trattamento del diabete e promosse misure igienico-sanitarie in occasione di epidemie come il colera, partecipando anche ai soccorsi dopo l’eruzione del Vesuvio del 1906. La sua pratica medica univa rigore scientifico e profonda spiritualità; considerava la professione medica una chiamata e il malato una presenza di Cristo, offrendosi spesso in forma gratuita ai bisognosi, sovvenzionando cure e provvedendo personalmente alla distribuzione di alimenti e latte ai poveri. 



    Nato in una famiglia di rango, scelse uno stile di vita austero, praticò la castità e dedicò molte energie all’assistenza dei più poveri evitando incarichi che lo allontanassero dall’attività ospedaliera. Durante la prima guerra mondiale prestò servizio per assistere i militari e continuò a pubblicare lavori scientifici su riviste nazionali e internazionali. Morì a Napoli il 12 aprile 1927 per un infarto. Dopo la morte la sua fama di santità crebbe rapidamente; la Chiesa cattolica avviò il processo di beatificazione e riconobbe miracoli che condussero alla beatificazione nel 1975 e alla canonizzazione nel 1987. Le sue spoglie sono custodite nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli e la sua figura è ricordata per l’integrazione autentica tra scienza, umanità e fede, con numerose associazioni, scuole e istituzioni che portano il suo nome e ne diffondono l’esempio di servizio disinteressato.




LA STRAGE DEL CANTIERE GONDRAND (1936)

 

    L’eccidio del cantiere Gondrand avvenne all’alba del 13 febbraio 1936 presso Mai Lahlà, nella retrovia vicino al confine con l’Eritrea, durante la guerra d’Etiopia; un gruppo di guerriglieri etiopi al comando del fitaurari Chenfè, agendo per il ras Immirù, attaccò il cantiere n.1 della Società Nazionale Trasporti Gondrand impegnato nell’ampliamento della strada Asmara–Adua. Il cantiere ospitava circa un centinaio di operai italiani ed eritrei guidati dagli ingegneri Cesare Rocca e Roberto Colloredo Mels; la presenza di presidi militari nella zona non garantiva la visibilità del campo. L’attacco, condotto da forze stimate tra cento e seicento uomini, travolse la debole difesa composta da quindici moschetti, attrezzi e pale; in poche ore furono uccisi la maggioranza degli occupanti: sessantotto italiani e diciassette eritrei, mentre due italiani sopravvissero e vennero poi rilasciati. 



    Molti corpi presentarono mutilazioni e segni di violenze estreme, mentre sul luogo si rilevarono i segni di un’esplosione nella polveriera che aveva causato perdite anche tra gli assalitori. La notizia suscitò dure reazioni: i reparti italiani compirono rappresaglie contro la popolazione locale con uccisioni, incendi e punizioni collettive, inclusa l’esecuzione di ritenuti responsabili esposti al pubblico. L’Italia presentò una denuncia alla Società delle Nazioni denunciando atrocità e uso di munizioni dum-dum; la protesta non ottenne esiti concreti e fu seguita dall’avanzata e dall’occupazione dell’Etiopia. L’eccidio rimase un episodio controverso della campagna coloniale, studiato nelle fonti d’archivio e nella storiografia che ricostruiscono modalità dell’attacco, reazioni militari e civili e il contesto di violenza reciproca della guerra.




MARCO MINGHETTI (1818-1886)

 

    Marco Minghetti (Bologna 1818 – Roma 1886) fu politico, economista e diplomatico della Destra storica, figura centrale nel Risorgimento e nella costruzione dello Stato unitario. Nato in una famiglia di proprietari terrieri, ricevette una solida formazione umanistica e scientifica, viaggiò in Europa e maturò idee liberali e economiche; pubblicò lavori su economia pubblica e libertà religiosa e si impegnò in pratiche agricole moderne. Dopo i moti del 1848 fu ministro dei Lavori Pubblici nello Stato pontificio, partecipò come ufficiale di stato maggiore nelle campagne contro l’Austria e, pur critico verso i repubblicani, mantenne posizioni moderate. Passato a Torino, si avvicinò a Cavour e al progetto unitario; fu segretario generale del ministero degli Esteri e presidente dell’Assemblea delle Romagne per l’annessione al Regno di Sardegna. 



    Ministro dell’Interno con Cavour e poi con Ricasoli, propose un progetto di decentramento amministrativo respinto dal Parlamento; divenne ministro delle Finanze e nel 1863 capo del governo, affrontando brigantaggio e la questione romana, e negoziò con la Francia la Convenzione di settembre del 1864 che prevedeva il ritiro delle guarnigioni francesi da Roma e lo spostamento della capitale a Firenze, decisione controversa che causò tumulti e la sua caduta. Fu di nuovo Presidente del Consiglio tra 1873 e 1876; la sua rigorosa politica fiscale portò al primo pareggio di bilancio italiano nel 1876 ma provocò la “rivoluzione parlamentare” e la sconfitta della Destra. Negli anni successivi si dedicò agli studi, alle relazioni culturali e diplomatiche, promosse contatti commerciali con Cina e Giappone, scrisse opere su Stato e Chiesa e mantenne ruolo di riferimento morale contro il trasformismo politico; morì a Roma nel 1886 e fu sepolto nella Certosa di Bologna.




NOCCIOLINI DI CHIVASSO

 

    Il francobollo dedicato ai Nocciolini di Chivasso, emesso il 10 settembre 2025 nella serie tematica “Le Eccellenze del sistema produttivo e del Made in Italy”, ha valore tariffario B pari a 1,30 euro e una tiratura di 200.004 esemplari distribuiti su fogli da 28 esemplari; la vignetta riproduce i piccoli dolcetti accompagnati da una foglia di nocciolo e dai suoi frutti con la legenda NOCCIOLINI DI CHIVASSO, la scritta ITALIA e l’indicazione tariffaria B2. Il bozzetto è di Emanuele Cigliuti e la stampa è affidata all’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato in rotocalcografia su carta bianca patinata neutra autoadesiva con imbiancante ottico; grammatura carta 90 g/mq, supporto Kraft monosiliconato 80 g/mq, adesivo acrilico ad acqua 20 g/mq da secco, dentellatura ottenuta tramite fustellatura 12, formato del riquadro 48 x 40 mm con vignetta tonda inserita e tracciatura 54 x 47 mm. Sono previste emissioni collaterali come busta primo giorno, annullo filatelico e cartella tematica per collezionisti. 



    La scelta di celebrare i Nocciolini di Chivasso nasce da proposte avanzate dalle realtà locali e da Ascom Confcommercio Torino per valorizzare un prodotto identificativo del territorio; il francobollo riconosce oltre un secolo di storia che parte da laboratori artigianali come quello di Giovanni Podio e si consolida con il brevetto depositato nei primi anni del Novecento e con la Festa dei Nocciolini istituita nel 1995. I Nocciolini, composti da soli zucchero, albume e nocciole e noti come “dolci più piccoli del mondo”, rappresentano un esempio di patrimonio gastronomico legato all’identità locale, alla tradizione della pasticceria piemontese e alla filiera delle nocciole; l’emissione filatelica assume valore promozionale oltre che celebrativo, inserendo il prodotto nella narrazione nazionale del Made in Italy e favorendo visibilità turistica e culturale per Chivasso e l’intero territorio circostante.



giovedì 18 settembre 2025

ANGELA LANSBURY (1925-2022)

 

    Angela Brigid Lansbury nacque a Londra il 16 ottobre 1925 da un’attrice irlandese e da un politico inglese. Scappata dal Blitz nel 1940, si stabilì negli Stati Uniti dove studiò recitazione a New York e nel 1942 firmò con la Metro-Goldwyn-Mayer, debuttando in Gaslight, National Velvet e Il ritratto di Dorian Gray, ruoli che le valsero due nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista. Sposata con Richard Cromwell e poi con Peter Shaw, con cui ebbe due figli, divenne cittadina statunitense e irlandese trasferendosi in Contea di Cork. Insoddisfatta dei ruoli stereotipati offerti dagli studi, negli anni Cinquanta si dedicò al teatro: nel 1966 esplose con Mame, vincendo il primo Tony Award e conquistando lo status di icona gay; seguirono Gypsy e la macabra Mrs Lovett in Sweeney Todd, che le fruttò un secondo Tony, e in seguito fu ammessa nell’American Theatre Hall of Fame. 



    Parallelamente proseguì la carriera cinematografica con Bedknobs and Broomsticks, Il candidato della Manchuria e Beauty and the Beast, dove doppiò la Bestia; prestò voce a Anastasia, Nanny McPhee e Mary Poppins Returns. Dal 1984 al 1996 incarnò Jessica Fletcher in Murder, She Wrote, una delle serie poliziesche più longeve di sempre, di cui fu anche produttrice esecutiva tramite la società fondata col marito. Durante la sua carriera collezionò sei Tony Awards, sei Golden Globe, un Laurence Olivier, un Academy Honorary Award, tre nomination all’Oscar, diciotto agli Emmy e una al Grammy. Scomparsa l’11 ottobre 2022 a 96 anni, ha lasciato un’impronta indelebile in teatro, cinema e televisione grazie all’eleganza della sua presenza.



LE PASQUE VERONESI (1797)

 

    Le Pasque veronesi furono un’insurrezione scoppiata a Verona tra il 17 e il 25 aprile 1797 contro le truppe francesi di occupazione guidate dal generale Antoine Balland su ordine di Napoleone Bonaparte. Alimentata da soprusi, confische di beni e tentativi di imporre la Repubblica giacobina nel territorio veneziano, la rivolta esplose quando un manifesto provocatorio attribuito al provveditore Francesco Battaia infiammò le folle. Dopo una rissa in un’osteria e uno sparo tra civili e soldati presso i ponti, migliaia di cittadini armati di fucili, sciabole, forconi e bastoni assalirono pattuglie e alloggi francesi, mettendo fuori combattimento oltre mille militari. Il popolo insorse con il sostegno di volontari delle cernide e di milizie attive nelle valli bergamasche e bresciane, mentre i comandanti Emilei, Bevilacqua, Maffei e Miniscalchi guidavano le azioni a Porta San Zeno, Porta Nuova, Porta San Giorgio e Porta Vescovo. 



    Assediato dai popolani Castelvecchio resistette alle sortite dei forti di San Felice e San Pietro finché gli insorti conquistarono cannoni e rovesciarono le artiglierie nemiche. Il provveditore Battaia tentò di negoziare con i francesi, ma il Senato di Venezia rimase inerte, impegnato nell’armistizio di Leoben con l’Austria, che di fatto consegnò la Lombardia ai francesi. Alla fine aprile circa 15.000 soldati napoleonici circondarono Verona, soffocarono la rivolta il 25 aprile e inflissero pesanti ammende, razzie di opere d’arte e prigionie per quasi duemila civili. L’episodio accelerò la caduta della Repubblica di Venezia e generò un acceso dibattito storiografico che si protrae ancora oggi.




STORIA DEL BUSTO DI NEFERTITI (1370-1330 A.C.)

 

    La celebre scultura policroma ritrae Nefertiti, Grande Sposa Reale del faraone Akhenaton, ed è realizzata in calcare con un sottile rivestimento di stucco dipinto. Alta 48 centimetri e dal peso di circa 20 kg, fu rinvenuta il 6 dicembre 1912 a Tell-el Amarna durante uno scavo della Deutsche Orient-Gesellschaft guidato da Ludwig Borchardt. Trovata avvolta in una cassa male illuminata, fu presentata come un modesto elemento in gesso per nasconderne il valore e facilitarne l’esportazione in Germania, dove arrivò nel 1913. Il volto, perfettamente simmetrico, mostra sopracciglia arcuate, zigomi pronunciati e collo slanciato. Indossa un copricapo blu “a coroncina” con fascia dorata e Uraeus, mentre la collana a motivi floreali aggiunge eleganza. L’occhio destro è composto da quarzo e pittura fissati con cera d’api, mentre il sinistro rimane vuoto, forse lasciato incompleto come modello didattico. 



    Sin dal 1923 analisi chimiche hanno individuato pigmenti dell’epoca amarniana: fritta azzurra, orpimento giallo, ossidi di ferro e carbone, e successive tomografie del 1992 e del 2006 hanno rivelato una fisionomia interna con rughe e imperfezioni ricoperte dallo stucco esterno, prova della cura di Thutmose. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu spostata dalla banca prussiana a un bunker antiaereo e infine a una miniera di sale a Merkers: recuperata dagli Alleati, rimase in esposizione negli USA fino al 1956, poi divisa tra Berlino Est e Ovest. Dal 1924 è esposta al Neues Museum, oggi nel Museo Egizio del Neues Museum. Da quasi un secolo l’Egitto ne reclama la restituzione, accusando Borchardt di inganno, e Zahi Hawass ha minacciato boicottaggi culturali con campagne come “Return to Sender”. Teorie di falso, avanzate da Henri Stierlin ed Erdogan Ercivan, sono state smentite da radiografie, analisi dei pigmenti e confronto con altre opere amarniane. Icona globale di bellezza, ogni anno attira mezzo milione di visitatori, simboleggiando insieme l’eleganza antica e le tensioni postcoloniali sul patrimonio culturale.




LA MISTERIOSA SCOMPARSA DELLA LEGIONE ROMANA DI CRASSO IN CINA (53 A.C.)

 

    Nell’estate del 53 a.C. Marco Licinio Crasso guidò oltre trentamila fra legionari e ausiliari verso i territori dei Parti, convinto di arricchirsi e conquistare l’Oriente. All’altezza di Carre, sull’Eufrate, le orde di arcieri partiani tesero un’imboscata: archi potenti, tattiche mobili, un caldo soffocante. I romani furono accerchiati, rimasti fermi in catene di schieramento rigide, e subirono perdite enormi. Alcuni sopravvissuti, catturati vivi, divennero prigionieri dell’impero dei Parti e finirono deportati verso steppa e deserto, tra l’odierno Uzbekistan e il Turkmenistan. Nel 1955 lo storico Homer H. Dubs avanzò l’ipotesi che un piccolo contingente di questi prigionieri riuscì a fuggire o fu trasferito più a est e, vagando lungo la Via della Seta, varcò le frontiere dell’Impero cinese. Secondo Dubs, gli annali Han parlano di un gruppo di centocinquanta uomini che adottò la caratteristica formazione “a scaglie di pesce”, simile alla testuggine romana. 



    Catturati dai cinesi, quei guerrieri sarebbero stati integrati nell’esercito Han come truppe mercenarie, quindi stabilitisi in un villaggio chiamato Liqian, traslitterazione di Li-chien (“Alexandria”). All’inizio del XXI secolo, le ricerche archeologiche e gli studi genetici su Zhelaizhai, villaggio erede di Liqian nella provincia di Gansu, registrarono in alcuni abitanti tratti europei insoliti in Cina: occhi chiari, nasi sporgenti, gruppo sanguigno raro. Ma molti storici hanno sottolineato che il nome Liqian compare già in documenti del 104 a.C. e che le prove materiali sono inconcludenti. Restano resti di fortificazioni, mattoni di forma inconsueta e tradizioni orali che evocano antichi stranieri. Che si tratti di fatti o di un mito alimentato dal desiderio di radici grandiose, la storia della legione romana in Cina continua a suscitare fascino e dibattito tra appassionati e studiosi.




martedì 16 settembre 2025

ANDREA LEEDS (1913-1984)

 

    Antoinette Lees nacque il 18 agosto 1913 a Butte, Montana, unica figlia di Charles, ingegnere minerario, e di Lina Deoviddio; l’infanzia trascorse in Messico, dove il padre seguiva attività estrattive. Tornata negli Stati Uniti, si laureò in Lettere all’Università della California a Los Angeles, con l’intenzione di dedicarsi alla scrittura prima di essere attratta dal cinema. Nel 1933 esordì sullo schermo con brevi comparse sotto il nome di Andrea Lees, alternando ruoli non accreditati in drammi e commedie. Il primo ruolo significativo arrivò nel 1936 con Come and Get It, seguito da It Could Happen to You l’anno successivo. La consacrazione avvenne in Stage Door (1937), dove interpretò Kay Hamilton accanto a Katharine Hepburn, Ginger Rogers e Lucille Ball, guadagnandosi la candidatura all’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il volto dolce e rassicurante di Leeds la portò a interpretare Hazel Dawes ne The Goldwyn Follies (1938), ma il film deludente le costò una battuta d’arresto. Nello stesso anno sostenne screen test per il ruolo di Melanie in Via col vento, poi assegnato a Olivia de Havilland. Compì il salto nei ruoli da protagonista accanto a Joel McCrea in Youth Takes a Fling (1938) e They Shall Have Music (1939), mostrando versatilità recitativa e charme naturale. 



    Nel biennio successivo fu protagonista de The Real Glory con Gary Cooper e David Niven, e di Swanee River – la prima biografia a colori di Stephen Foster – al fianco di Don Ameche. L’ultimo film fu Earthbound (1940), un giallo soprannaturale in cui il fantasma del marito aiuta la protagonista a risolvere un omicidio. A soli ventisette anni, decise di ritirarsi dallo schermo dopo aver sposato un anno prima Robert Stewart Howard, figlio dell’imprenditore e proprietario di cavalli Charles S. Howard. Dalla unione nacquero due figli, Robert Jr. e Leann, scomparsa prematuramente nel 1971. Insieme al marito gestì allevamenti di purosangue, diventando proprietaria e allevatrice di successo grazie anche al celebre soggetto Seabiscuit. La coppia acquistò e trasformò in hotel il Colonial House di Palm Springs, noto oggi come Colony Palms, con una suite dedicata al loro campione equino. Rimasta vedova nel 1962, Andrea avviò un’attività nel settore orafo, mantenendo viva la passione per l’equitazione. Morì di cancro il 21 maggio 1984 a Riverside, California, e riposa nel Desert Memorial Park di Cathedral City. Nel 1994 fu insignita della Golden Palm Star sulla Palm Springs Walk of Stars, a riconoscimento del suo contributo al cinema e allo sport equestre americano.



150° DELLA DITTA PALLINI DI ROMA

 

    Il francobollo, emesso il 10 settembre 2025, celebra i 150 anni di Pallini nell’ambito della serie tematica “Le eccellenze del sistema produttivo e del Made in Italy” ed è valorizzato dal codice tariffa B pari a €1,30. La vignetta riproduce un manifesto in stile liberty di inizio Novecento, con un uomo e una donna seduti su una terrazza intenti a degustare il Mistrà, il liquore più celebre dell’azienda, incorniciati in alto dal logo celebrativo “150 ANNI PALLINI ROMA” e accompagnati dalla dicitura esplicita dell’anniversario. Il progetto grafico è firmato dal Centro Filatelico dell’Officina Carte Valori e Produzioni Tradizionali dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. e la stampa rotocalcografica è realizzata su carta bianca patinata neutra, autoadesiva, con imbiancante ottico. La grammatura della carta è di 90 g/m², il supporto kraft monosiliconato da 80 g/m² e l’adesivo è di tipo acrilico ad acqua distribuito in 20 g/m². La dentellatura avviene mediante fustellatura e la tiratura ammonta a 225 025 esemplari, tutti prodotti nelle officine IPZS di Roma.



    La scelta di dedicare un francobollo a Pallini ricorda il primo laboratorio di liquori artigianali fondato a Roma nel 1875 da Matteo Pallini: un’attività familiare che ha saputo evolversi senza mai rinunciare alle proprie radici, giungendo nel 2025 al 150° anniversario di fondazione. Il Mistrà, protagonista della grafica, è da sempre simbolo della cultura dell’aperitivo capitolino: bevanda iconica dei caffè storici di Roma, ha ispirato poeti e scrittori all’inizio del XX secolo, incarnando convivialità e gusto raffinato. Dietro alla ricetta, tramandata di generazione in generazione, c’è l’arte della distillazione di anice verde e semi di anice stellato: un sapere che ha contribuito a impreziosire il patrimonio enogastronomico italiano con un prodotto riconosciuto a livello internazionale. L’impostazione liberty del bozzetto rievoca l’epoca d’oro della grafica pubblicitaria, rimandando ai manifesti storici che promuovevano liquori pregiati in un’armoniosa fusione tra arte e comunicazione commerciale. Includere Pallini nella collana filatelica delle eccellenze Made in Italy significa valorizzare un’impresa storica che ha saputo coniugare tradizione e innovazione, trasformando un piccolo laboratorio romano in un ambasciatore del gusto italiano nel mondo e offrendo ai collezionisti un pezzo di storia industriale racchiuso in un francobollo.



FERDINANDEA: L'ISOLA CHE NON C'E'

 

    Tra Sciacca e Pantelleria, nel canale di Sicilia, giace un banco vulcanico emerso nel luglio 1831 a seguito di un’imponente eruzione sottomarina. In pochi giorni un cono tronco-conico alto fino a 65 metri e dal perimetro di circa quattro chilometri quadrati si innalzò da 6,9 metri sotto il livello del mare, formando l’effimera Isola Ferdinandea. Composta soprattutto da tefrite, materiale friabile e soggetto all’erosione marina, ospitava due laghetti sulfurei in ebollizione e uno pseudotorrente di cratere, unico accenno di idrografia. La rapida azione delle onde la sommorse definitivamente nel gennaio 1832, ma non prima di scatenare una curiosa disputa internazionale. Gli Inglesi, di stanza con l’ammiraglia di Sir Percival Otham, la battezzarono Graham Island; i Francesi, con il brigantino La Flèche e il geologo Constant Prévost, la ribattezzarono Île Julia; il Regno delle Due Sicilie inviò il capitano Corrao per piantarvi la bandiera borbonica e dedicarla a Ferdinando II. 



    Tra studi di Gemmellaro, Smyth e Davy, corrispondenze a governi e piantumazioni di targhe commemorative, l’evento fu raccontato da dipinti, lettere e relazioni scientifiche. Fugaci riaffioramenti si verificarono nel 1846 e nel 1863, mentre nel 1968 e nel 2002 anomalie sismiche e termali sollevarono il sospetto di una nuova emersione, mai confermata. In epoca recente subacquei hanno collocato un tricolore per evitare rivendicazioni e, tra il 2006 e il 2007, un sensore di pressione è stato installato e recuperato per il monitoraggio dell’attività del cono secondario Empedocle. Campagne ISPRA e OGS fino al 2019 hanno mappato nove crateri monogenici e individuato sei edifici sottomarini, battezzati con nomi di nereidi e oceanine. L’Isola Ferdinandea resta oggi un simbolo della mutevolezza del confine tra terra e mare e un laboratorio per lo studio dei vulcani mediterranei.




lunedì 15 settembre 2025

MUSEO DI PALAZZO ROSSO A GENOVA

 

    Il Palazzo Brignole Sale, noto come Palazzo Rosso per la tonalità calda delle sue facciate, fu eretto tra il 1671 e il 1677 su preesistenti edifici medievali acquistati da Giovan Francesco Brignole Sale. Il progetto, affidato inizialmente ai fratelli Castello e completato da artigiani genovesi come Cataldi, imprimeva all’esterno un ritmo serrato di finestre incorniciate da bugnato liscio, coronate da una modanatura in stucco. Una elegante loggia rivolta su Strada Nuova introduceva al portale monumentale, sormontato dallo stemma araldico dei Brignole Sale, simbolo del peso politico ed economico della famiglia nella Repubblica di Genova. All’interno si aprono ambienti riccamente decorati: il salone d’onore ospita affreschi di Valerio Castello raffiguranti episodi mitologici, mentre le volte degli appartamenti prendono vita sotto i pennelli di Giovanni Andrea Ansaldo, Taddeo Carlone e Giovanni Benedetto Castiglione. 



    Stucchi di Antonio Maria Maragliano impreziosiscono le pareti a contrasto con gli eleganti pavimenti in marmi policromi. La quadreria privata, raccolta nei secoli dai Brignole Sale, conserva capolavori di Van Dyck, Guido Reni, Bernardo Strozzi, Jean-Baptiste van Loo, Francesco Solimena e Alessandro Magnasco. Ricchissimo è anche il corredo di porcellane, avori, sculture lignee e arredi d’epoca. Nel 1874 la marchesa Maria Brignole Sale, ultima erede del casato, donò alla città il palazzo insieme al vicino Palazzo Bianco; l’anno successivo entrambi aprirono come musei civici. Oggi il Palazzo Rosso fa parte dei Musei di Strada Nuova, inseriti nella lista Unesco, mantenendo intatto il fascino barocco e continuando a parlare dell’intreccio tra potere, arte e collezionismo genovese.




STORIA DEL DUOMO DI VIENNA

 

    Le origini del Duomo di Vienna risalgono al 1137, quando un accordo tra il margravio Leopoldo IV e il vescovo di Passau permise di erigere una chiesa dedicata a Stefano. La prima costruzione, consacrata nel 1147, subì gravi danni per un fulmine nel 1149. Tra il 1230 e il 1245 Federico II promosse un nuovo impianto romanico, di cui restano il grande portale detto “Riesentor” e le due torri “Heidentürme”. Dopo un incendio del 1258 l’edificio fu completato e riconsacrato nel 1263, ospitando pochi anni dopo il sinodo provinciale di Salisburgo. Dal 1304 gli Asburgo avviarono la trasformazione gotica con l’ampliamento del coro, consacrato nel 1340 come “Albertinischer Chor”. Rudolf IV pose le basi del grande rinnovamento: nel 1359 posò la prima pietra del Süd­turm e istituì nel 1365 il capitolo collegiata di “Allerheiligen”, trasferendo le reliquie e fondando la cripta che lo accolse alla sua morte. 



    Il campanile meridionale, alto 136 m, fu portato a termine nel 1433, divenendo stazione di riferimento in Europa, mentre il Nord­turm, iniziato nel 1450, rimase incompiuto e ottenne solo, nel 1578, una semplice cupola rinascimentale. Nei secoli successivi Anton Pilgram e Hans Puchsbaum lavorarono all’interno, che subì decorazioni barocche nel Seicento. Durante l’assedio turco del 1683 il Duomo subì danni e alcune bocche da fuoco furono fuse nella nuova campana “Pummerin”. Dopo le lesioni provocate da Napoleone nel 1809, la guglia meridionale fu ricostruita tra il 1862 e il 1864 da Friedrich von Schmidt secondo il modello medievale. Nel 1945 il tetto ligneo prese fuoco, distruggendo campane e organo, ma l’edificio fu risparmiato grazie alla resa del comandante nazista; riedificato con una struttura metallica, riaprì nel 1952 con la Pummerin rifusa, emblema di rinascita.








venerdì 12 settembre 2025

ANDREA KING (1919-2003)

 

    Andrea King nacque Georgette André Barry a Parigi il 1° febbraio 1919 e, venti giorni dopo, emigrò con la madre negli Stati Uniti. Trascorse l’infanzia con la nonna a Cleveland, poi a Palm Beach e infine a Forest Hills nel Queens, dove frequentò la Edgewood School di Greenwich (Connecticut). A 14 anni, dopo aver interpretato Giulietta in un allestimento scolastico, debuttò in un’opera di Lee Shubert, dando il via a una carriera teatrale che la portò a Broadway con Growing Pains (1933), Fly Away Home (1935) e Life with Father. Dopo qualche cortometraggio, esordì sullo schermo con The Ramparts We Watch (1940). Nel 1944 firmò un contratto con la Warner Bros. e adottò lo pseudonimo Andrea King, talvolta accreditata come Georgette McKee. Fece un’apparizione non accreditata in La signora Skeffington (1944) accanto a Bette Davis, venendo eletta dall’azienda l’attrice più fotogenica del 1945. Lavorò in The Beast with Five Fingers (1946) e in The Man I Love (1947) con Robert Alda, preferì il ruolo di Marjorie Lundeen in Ride the Pink Horse (1947) anziché quello in Nightmare Alley di Goulding. 



    Negli anni ’50 fu protagonista nei noir Dial 1119 e Southside 1-1000 (entrambi 1950) e nel fantascientifico Red Planet Mars (1952), e interpretò ruoli secondari in The World in His Arms (1952), Band of Angels (1957) e Commandos (1958). Dagli anni ’60 al 1990 lavorò quasi esclusivamente in televisione: apparve in Maverick, The Alaskans, 77 Sunset Strip, Hawaiian Eye e The Tom Ewell Show, oltre a quattro puntate di Perry Mason (1959-1963), tra cui l’assassina Barbara Heywood ne The Case of the Bedeviled Doctor. Concluse la carriera con un episodio di Murder, She Wrote (1990) e tornò su A&E per due puntate di Biography dedicato ai suoi ricordi sul set. Per il suo contributo al piccolo schermo ricevette una stella sulla Hollywood Walk of Fame nel febbraio 1960. Nel 1940 sposò l’avvocato Nat Willis, da cui ebbe una figlia, Deborah Anne Willis. Dopo la morte del marito nel 1970, scrisse libri per bambini ed entrò in politica come democratica, sostenendo Adlai Stevenson nelle presidenziali del 1952. Professa la fede episcopaliana. Morì il 22 aprile 2003 in una casa di cura per professionisti dello spettacolo a Woodland Hills, Los Angeles, e fu sepolta nel cimitero episcopale di Zion a Charles Town, West Virginia.



SENTINUM (SASSOFERRATO) - PARCO ARCHEOLOGICO


    Il Parco archeologico di Sentinum racchiude le vestigia dell’antica città romana di Sentinum, municipio riferito alla tribù Lemonia, celebre per la “Battaglia delle Nazioni” del 295 a.C. in cui Roma sconfisse Galli, Sanniti ed Etruschi. Il sito si estende intorno a un altopiano alluvionale alla confluenza del Sentino col Marena, a breve distanza dalla via Flaminia. Suddiviso in due settori – località Civita e Santa Lucia – occupa oggi 16 000 m² e fa parte della rete dei Beni Archeologici delle Marche, gestita dal Comune di Sassoferrato. Nel settore di Civita emergono tratti del circuito murario e del reticolo viario ortogonale con cardo e decumano principali, pavimentati in basoli bianchi e dotati di fognature. Si conservano resti delle terme urbane, con piscine, calidarium e frigidarium, e di un’aula absidata decorata da marmi policromi. In quest’area sono stati individuati ambienti adibiti a fonderia per bronzi e possibili fornaci vetrarie, oltre a diverse abitazioni raggruppate nell’“insula del pozzo”. 



    A Santa Lucia si trova un complesso termale extraurbano: un grande cortile a mosaico delimitato da colonne in breccia rossa di Verona, con tepidarium e apodyterium, verosimilmente destinato all’accoglienza dei viaggiatori lungo la strada di collegamento con Suasa. Le prime indagini risalgono al Quattrocento con Ciriaco d’Ancona; scavi sistematici iniziarono nel 1890-91 per la ferrovia Fabriano-Urbino e proseguirono nel Novecento sotto la guida di Brizio, Fabbrini, Brecciarioli Taborelli e infine dalle Università di Genova e Urbino (2002-2007). Molti reperti, fra cui il mosaico di Aion e quello del Ratto di Europa, sono esposti nel Museo Civico Archeologico di Sassoferrato e in collezioni europee.




25° COSTITUZIONE DELL'UNIONE AFRICANA


    Il francobollo è stato emesso il 9 settembre 2025 dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy nell’ambito della serie tematica “I valori sociali”, dedicato all’Atto costitutivo dell’Unione Africana nel 25° anniversario. Il valore facciale corrisponde alla tariffa B zona 2 (pari a 2,55 €) ed è previsto in una tiratura complessiva di 150 030 esemplari. La vignetta riproduce la sede centrale dell’Unione Africana ad Addis Abeba, in Etiopia, simbolo di unità e autodeterminazione del continente. Completano il bozzetto le legende “25° ANNIVERSARIO UNIONE AFRICANA”, “SEDE CENTRALE – ADDIS ABEBA”, la scritta “ITALIA” e l’indicazione tariffaria “B ZONA 2”. Il progetto grafico è a cura della Commissione Unione Africana e ottimizzato dal Centro Filatelico dell’Officina Carte Valori e Produzioni Tradizionali dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A.. La stampa è eseguita in rotocalcografia a quadricromia dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. su carta bianca patinata neutra autoadesiva con imbiancante ottico (90 g/mq), supporto in carta kraft monosiliconata (80 g/mq) e adesivo acrilico ad acqua (20 g/mq). Il formato carta misura 30 × 40 mm, la superficie di stampa 30 × 38 mm, la tracciatura 37 × 46 mm e la dentellatura di tipo 11 è realizzata tramite fustellatura. I francobolli sono disposti in fogli da 45 esemplari, con la cimosa decorata dal logo monocromatico del MIMIT.



    L’Atto Costitutivo dell’Unione Africana, adottato a Lomé nel luglio 2000 ed entrato in vigore il 26 maggio 2001, segna il passaggio dall’Organizzazione dell’Unità Africana a un organismo fondato sui principi di democrazia, diritti umani, stato di diritto e capacità di intervento in caso di gravi crisi interne (articoli 3 e 4h). In 25 anni l’Unione Africana ha promosso la pace, la sicurezza, lo sviluppo sostenibile e la rappresentanza politica di 55 Stati membri, aspirando a rafforzare l’integrazione economica e sociale di un continente ricco di diversità culturale e linguistica. La cerimonia di presentazione si è svolta il 9 settembre 2025 nel Salone degli Arazzi di Palazzo Piacentini a Roma, presieduta dal Ministro Adolfo Urso e dal sottosegretario con delega alla filatelia Fausta Bergamotto, alla presenza dei vertici di Poste Italiane e degli ambasciatori di 19 Paesi africani. I relatori hanno sottolineato il valore collettivo di questa emissione come “tassello della memoria” e hanno richiamato il Piano Mattei quale paradigma di partenariato paritario tra Italia e Africa, evidenziando il ruolo strategico del nostro Paese nel sostegno allo sviluppo e al dialogo intercontinentale.



SOFONISBA ANGUISSOLA (1532-1625)

 

    Sofonisba Anguissola nacque a Cremona nel 1532, prima di sette figli di una famiglia aristocratica che incoraggiò le sue inclinazioni artistiche fin dall’infanzia. Il padre, Amilcare, colto e appassionato d’arte, affidò Sofonisba e la sorella Elena al pittore Bernardino Campi, presso il cui atelier vissero per tre anni apprendendo tecniche del manierismo settentrionale. Completò la formazione con Bernardo Gatti e, già nella prima metà degli anni Cinquanta, firmò autoritratti di sorprendente acutezza psicologica e realizzò ritratti di familiari – tra cui il celebre “Ritratto di Elena” e la “Partita a scacchi” con le sorelle – suscitando l’ammirazione di Michelangelo, che elogiò un suo disegno espressivo. 



    Nel 1559 venne invitata a corte di Filippo II in Spagna come dama di onore e insegnante di pittura per la giovane regina Elisabetta di Valois. A Madrid ritrasse quasi tutti i membri della famiglia reale e, pur senza mai siglare le tele, ricevette gioielli e stoffe preziose; secondo alcune fonti, un compenso di cento ducati annui. Dopo la morte della regina rimase per anni al servizio delle infante Isabella e Caterina. Tornata in Italia nel 1573, sposò il nobile siciliano Fabrizio Moncada e si trasferì a Paternò, dove realizzò la pala d’altare “Madonna dell’Itria” per commemorare il marito caduto in un attacco pirata. Vedova, si risposò con il genovese Orazio Lomellini e visse a lungo a Genova, continuando a dipingere ritratti di nobili spagnoli in visita. Negli ultimi anni si stabilì a Palermo, dove van Dyck la ritrasse nel 1624 e la celebrò come maestra di ritrattistica. Morì ultranovantenne nel 1625 e fu sepolta nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi a Palermo. Oggi è riconosciuta come una pioniera tra le donne artiste del Rinascimento.




mercoledì 10 settembre 2025

ALMA BENNETT (1904-1958)


    Alma Bennett nacque Alma Long a Seattle il 9 aprile 1904 e crebbe tra le vie di San Francisco, dove il fervore del teatro locale e degli studi fotografici temprò in lei l’aspirazione a recitare. Debuttò sullo schermo già nel 1915, ma fu nel 1919, con il dramma His Master’s Voice e The Right to Happiness, che iniziò a farsi notare per la sua presenza trasparente e al contempo carismatica. La sua bellezza bruna e il portamento aggraziato la resero perfetta per i ruoli di vamp sofisticata e per le eroine dei western che spopolavano negli anni del muto. Tra il 1921 e il 1927 prese parte a oltre sessanta pellicole, collaborando con maestri come Cecil B. DeMille in The Affairs of Anatol (1921) e con John Ford in The Face on the Bar-Room Floor (1923) e Tre salti in avanti (Three Jumps Ahead, 1923). Nel fantasy pionieristico Il mondo perduto (The Lost World, 1925) regalò al pubblico un’immagine di donna audace all’interno di un kolossal che fece storia. In Orchids and Ermine (1927), al fianco di Colleen Moore, mise in luce una sorprendente versatilità comica. 



    La sua recitazione, quieta ma penetrante, si fondava su un controllo magistrale del linguaggio del corpo e su sguardi capaci di suggerire drammi interiori senza parole. Il passaggio al cinema sonoro coincise con un progressivo ritiro: dopo un paio di parti minori alla fine degli anni Venti, si spense la luce dei riflettori. Nel privato sposò nel 1924 il pubblicitario Fred Bennett, da cui divorziò un anno dopo, e nel 1929 scelse come compagno di vita il suo manager Harry Spingler, che le rimase accanto fino alla sua morte nel 1953. Ultimo marito fu l’attore Blackie Whiteford, sposato nel 1954. Alma Bennett si spense a Los Angeles il 16 settembre 1958, a soli 54 anni, per una polmonite. Morì nell’ombra, senza funerali pubblici né necrologi solennemente diffusi, ma lasciò un’impronta indelebile nel cinema muto grazie a ruoli che combinavano grazia, tensione emotiva e un’eleganza senza tempo. La sua filmografia, straordinariamente ricca per un’epoca in cui la carriera di molte colleghe era fugace, continua a essere studiata dagli appassionati come un esempio fulgido di interprete capace di trasmettere interi mondi interiori con un solo sguardo.



STEVEN POWER (1956)

 

    Gli anni formativi di Steven Power risalgono al 1956, anno della sua nascita a Detroit; ben presto la famiglia si trasferì sulle coste di Los Angeles, dove tra le onde sviluppò una passione che avrebbe segnato tutta la sua vita. Figlio del designer automobilistico e pubblicitario John Power, laureato all’Art Center College of Design di Pasadena, osservò fin da bambino il padre impegnato in studi e schizzi, maturando una tecnica iperrealista che univa precisione e fantasia. Per quasi tutta la giovinezza annotò avventure, ore di surf e viaggi in California, Messico e Hawaii con matita e pennello, dando forma a paesaggi in cui la natura sembra pulsare di energia. 



    Pubblico e collezionisti commentano che le sue tele invitano a immergersi in visioni di paradiso, un effetto amplificato dal realismo meticoloso e dall’intenso chiaroscuro. Ha iniziato realizzando scenografie per videoclip e film, sculture, fondali pittorici, murales e finiture decorative in ville private, dove ha affinato l’uso della stratificazione dei pigmenti per creare superfici ricche di spessore e contrasti luminosi. Il trasferimento definitivo alle Hawaii nel 1994 ha rappresentato un punto di svolta: il mare divenne il soggetto principale dei suoi quadri, immortalato in scene “credibili e al tempo stesso quasi irreali”. In quegli anni ha ricevuto l’incarico di illustrare cinque edizioni del Triple Crown of Surfing; tra queste le più note per i contest del 1997, 1998, 1999, 2003 e per il Vans Triple Crown del 2009, opere che hanno consacrato la sua fama tra collezionisti e appassionati di surf art.




HAMISH BLAKELY (1968)


    Hamish Blakely è nato nel 1968 a Canterbury, Inghilterra, e fin da bambino ha mostrato una forte inclinazione per l’arte, realizzando schizzi in bianco e nero prima di intraprendere gli studi in illustrazione alla Wimbledon School of Art e alla Kingston University, dove sperimentò per la prima volta i colori a olio cercando di perfezionare i suoi ritratti e accendendo un interesse che lo avrebbe portato a una carriera di successo. Trasformatosi in illustratore professionista dopo il diploma, collaborò con istituzioni come Cable & Wireless e British Telecom e realizzò le copertine di due edizioni di Schindler’s List, prima di avvicinarsi definitivamente alla pittura figurativa e alla tecnica materica basata sulla stratificazione di pigmenti pesanti, che conferisce alle sue tele una superficie ricca di spessore e di contrasti luminosi. 



    La passione per la figura umana, e in particolare per l’eleganza delle forme femminili, si traduce in opere dove sensualità e realismo si fondono grazie a dettagli meticolosi e a una tavolozza intensa e calibrata, influenzata dal drammatico chiaroscuro di Caravaggio, dalla verità psicologica dei volti di Rembrandt e Velázquez e dalla narrazione pittorica di Norman Rockwell, modelli dai quali ha attinto per elaborare il proprio linguaggio artistico. Ha esposto a Londra in gallerie di prim’ordine, ricevendo un riconoscimento nazionale che ha consacrato la sua abilità tecnica e la capacità di emozionare il pubblico, continuando a produrre tele molto richieste da collezionisti e mercanti d’arte internazionali.




GIUSEPPE TARTINI (1692-1770)


    Giuseppe Tartini nacque a Pirano d’Istria l’8 aprile 1692 in una famiglia di origini fiorentine; orfano di padre in gioventù, ricevette le prime nozioni di violino presso i padri delle Scuole Pie di Capodistria e completò gli studi di giurisprudenza all’Università di Padova, distinguendosi però anche nella scherma. Il matrimonio segreto nel 1710 con Elisabetta Premazore, nipote del cardinale Cornaro, gli costò la fuga da Padova e un rifugio di due anni nel convento di Assisi, dove perfezionò l’arco e il fraseggio sotto la guida del “padre Boemo” Černohorský, trasformando il suo carattere impulsivo in una personalità più misurata. Fu qui che scoprì il celebre “terzo suono” o “toni di Tartini”, fenomeno di risonanza tra due note suonate contemporaneamente e da cui derivò la sua celebre sonata Il trillo del diavolo. Ritornato in Italia, si affermò rapidamente come violinista di pregio. Dal 1716 al 1718 si perfezionò nelle Marche, poi nel 1721 ottenne la direzione musicale della Cappella Antoniana di Padova, una delle migliori d’Italia, con condizioni contrattuali straordinarie che gli permisero di insegnare e concertare liberamente. 



    Nel 1728 fondò la Scuola delle Nazioni, attirando allievi da tutta Europa come Pietro Nardini, Pasquale Bini e Maddalena Lombardini; tra questi figurò anche il giovane Antonio Salieri. La sua produzione strumentale comprende oltre cento sonate, numerosi concerti e la celebre Sonata in sol minore Il trillo del diavolo, che rimane uno dei vertici dell’arte violinistica barocca. Affascinato dalla teoria musicale, Tartini dedicò gli ultimi decenni ai suoi trattati: il Trattato di musica secondo la vera scienza dell’armonia (1754) e la Dissertazione dei principi dell’armonia musicale (1767), opere in cui cercò di fondare la musica sulla fisica del suono, pur ricevendo critiche da teorizzatori come Serre e Forkel. Ufficialmente in servizio fino al 1765 e insegnante fino al 1767, morì a Padova il 26 febbraio 1770 per gangrena, lasciando un’eredità di innovazione violinistica, didattica e teorica che ispirò la scuola europea dei violinisti e influenzò lo sviluppo dell’armonia occidentale.




CANONIZZAZIONE DI PIER GIORGIO FRASSATI


    Il francobollo ordinario dedicato alla canonizzazione di Pier Giorgio Frassati è stato emesso il 7 settembre 2025 nell’ambito della serie tematica “I valori sociali” in emissione congiunta con lo Stato della Città del Vaticano, la Repubblica di San Marino e il Sovrano Militare Ordine di Malta. La vignetta riproduce un particolare del dipinto realizzato da Alberto Falchetti che raffigura il giovane beato, scomparso a 24 anni nel 1925, affiancato dalle diciture “CANONIZZAZIONE DI PIER GIORGIO FRASSATI”, “A. FALCHETTI”, la scritta “ITALIA” e l’indicazione tariffaria “B ZONA 1”. La stampa è eseguita in rotocalcografia dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. in quadricromia su carta patinata gommata fluorescente non filigranata del peso di 100 g/m². Il formato della carta misura 30 × 40 mm, l’area di stampa 26 × 36 mm e la dentellatura è di tipo 13½ × 13 realizzata tramite fustellatura. La tiratura complessiva comprende 250 000 esemplari disposti in fogli da 50 francobolli, con cimosa decorata dal logo monocromatico del Ministero delle Imprese e del Made in Italy e dalle indicazioni dell’emissione congiunta. 



    Pier Giorgio Frassati nacque a Torino il 6 aprile 1901 in una famiglia agiata e colta e morì il 4 luglio 1925 per una poliomielite fulminante. Studente di ingegneria mineraria al Politecnico di Torino, manifestò fin da giovane un’impeccabile testimonianza di fede, iscrivendosi all’Azione Cattolica, alla FUCI e alla Società di San Vincenzo de’ Paoli, dedicandosi in segreto ai poveri e ai malati. La sua passione per la montagna, da lui considerata metafora della vita spirituale, è racchiusa nel motto “Verso l’alto!” con cui invitava a elevare lo sguardo verso il trascendente. La canonizzazione, celebrata nella Basilica di San Pietro durante il Giubileo del 2025, riconosce il valore della santità laicale e della carità concreta. L’emissione filatelica diventa così uno strumento di memoria e di ispirazione per i giovani, ricordando un modello di impegno civile e di pregio spirituale capace di unire la tradizione cattolica all’odierna ricerca di senso nella vita quotidiana.



martedì 9 settembre 2025

FEMMINA FOLLE (FILM 1945)


    Leave Her to Heaven è un film statunitense del 1945 diretto da John M. Stahl, con Gene Tierney nel ruolo di Ellen Berent, Cornel Wilde nei panni dello scrittore Richard Harland, Jeanne Crain in quelli della cugina Ruth e Vincent Price come il procuratore Russell Quinton. La sceneggiatura di Jo Swerling si ispira al romanzo omonimo di Ben Ames Williams del 1944 e beneficia di una sontuosa fotografia in Technicolor curata da Leon Shamroy, che vinse l’Oscar per il suo lavoro. Il girato si svolse tra le foreste della Sierra Nevada in California, i paesaggi desertici di Arizona e Nuovo Messico e alcune scene a Warm Springs, Georgia, tra maggio e agosto 1945, mentre la colonna sonora fu affidata ad Alfred Newman. Il film uscì nelle sale di Los Angeles il 20 dicembre e a New York il 25 dicembre, diventando il maggiore incasso della Twentieth Century Fox negli anni Quaranta, con 8,2 milioni di dollari di affitti mondiali. Durante un viaggio in treno nel deserto del New Mexico, Richard incontra Ellen, una giovane ereditiera di Boston affascinata dall’uomo che le ricorda il padre scomparso. Dopo un rapido fidanzamento, i due si sposano e si trasferiscono in un lodge sul lago nel Maine, dove Ellen rivela un carattere geloso e patologicamente possessivo. Quando il fratello minore di Richard, Danny, paralizzato dalla poliomielite, va a vivere con loro, Ellen, con cinica determinazione, lo lascia annegare facendosi scudo dietro il presunto incidente. 



    In seguito induce intenzionalmente un aborto lanciandosi da una scala e, scoperta dalla madre adottiva Ruth, accusa la cugina di ambire a Richard e ordisce una calunnia che porterà all’intervento del procuratore Quinton. Per vendicarsi della crescente insofferenza familiare, Ellen avvelena se stessa con arsenico mescolato allo zucchero, simulando un omicidio. Sull’orlo della morte chiede a Richard di cremarne le spoglie e disperderne le ceneri nel New Mexico, poi muore. Ruth viene accusata di omicidio e processata, ma il marito assistente approfitta della cremazione per ostacolare l’autopsia e portare il caso in tribunale. Durante il dibattimento Richard testimonia con lucidità sulla natura psicopatica di Ellen, rivelando le sue colpe e dimostrando che la donna si è tolta la vita per punire entrambi. Ruth ottiene l’assoluzione, mentre Richard è condannato a due anni come complice per omissione e torna infine al suo lodge al fianco della cugina amata. Pur sfuggendo a una definizione univoca, Leave Her to Heaven è stato celebrato per la sua sovrapposizione di thriller psicologico, melodramma e noir in pieno Technicolor, enfatizzato da suggestioni mitologiche che rimandano a figure come le sirene e Medea. Critici e appassionati ne hanno lodato l’ambiguità di genere, consolidata da un seguito cult, e nel 2018 il film è stato inserito nel National Film Registry della Library of Congress come opera “culturalmente, storicamente o esteticamente significativa”.




DINA GALLI (1877-1951)


    Clotilde Anna Maria Galli, detta Dina, nacque a Milano il 6 dicembre 1877 da Giuseppe Galli, impresario teatrale, e Armellina Nesti, caratterista. Fin da bambina calcò il palco accanto alla madre, ma fu l’incontro con l’attore dialettale Edoardo Ferravilla a trasformarla da semplice comparsa in voce comica di grande impatto, grazie a un fisico minuto, occhi vivaci e un’istintiva vena ironica. All’inizio del Novecento entrò nella compagnia Talli-Gramatica-Calabresi, dove il rifiuto di Irma Gramatica per La dame de chez Maxim di Georges Feydeau le aprì le porte del successo: la sua interpretazione maliziosa e mai volgare la consacrò interprete ideale di vaudeville e pochade. Nel 1907 fondò la propria compagnia insieme a Giuseppe Sichel e Amerigo Guasti, alternando commedie di Feydeau, Veber e Hennequin a titoli leggeri e sentimentali di Fraccaroli, Forzano e Adami. Durante la Prima Guerra mondiale esplose il suo trionfo con La maestrina e Scampolo di Dario Niccodemi, nei ruoli di madre affettuosa e di ragazzina di strada dalla delicata freschezza. Negli anni Trenta il ritorno al vernacolo milanese con Felicità Colombo sancì l’unione tra comicità brillante e caratterizzazione popolare, affiancata da un cast che spaziava da Ruggero Ruggeri a Nino Besozzi. 



    Sul grande schermo esordì già nel 1914, ma fu con Felicità Colombo (1937) e Nonna Felicità (1938), diretti da Mario Mattoli su soggetti di Giuseppe Adami, che conquistò il pubblico cinematografico. Tra i film più noti figura Stasera niente di nuovo (1942), girato in piena guerra, seguito da Il birichino di papà (1943) e Tre ragazze cercano marito (1944). Dopo un breve allontanamento dedicato al cinema, tornò a calcare il palcoscenico nel secondo dopoguerra in riviste come Col cappello sulle ventitré (1945) e in commedie di George Kaufman e Moss Hart, confermando il suo talento di “stralunata comicità”. Fu la prima attrice italiana a volare su un biplano nel 1910 e sopravvisse alla strage anarchica del teatro Diana di Milano nel 1921. Morì a Roma il 4 marzo 1951 e riposa nel Cimitero Monumentale di Milano, dove una statua di Angelo Biancini la immortala con una maschera teatrale. La sua eredità prosegue nella figlia Rosanna e nella nipote, la conduttrice Barbara Gulienetti, simboli di una dinastia dedicata all’arte del palcoscenico.