La storia del progetto della Mole Littoria affonda le radici nella Milano degli anni Venti, quando Mario Palanti, architetto di fama internazionale grazie alle sue opere in Sud America come il Palacio Barolo di Buenos Aires, concepì l’idea di un monumento verticale capace di incarnare il dinamismo e l’ardire del nuovo regime. Tornato in Italia, presentò nel 1924 al Ministero dei Lavori Pubblici modelli in gesso e disegni tecnici per una torre alta 330 metri e articolata in 88 piani, destinati a concentrare al loro interno uffici governativi, sedi parlamentari, hotel e spazi pubblici. Mussolini accolse con entusiasmo la proposta, chiedendo di sostituire il titolo originario L’Eternale con Mole Littoria e apponendo la dedica autografa “Per la Mole Littoria, Alalà”. Palanti elencò un programma funzionale ambizioso: vaste sale per le adunanze del Gran Consiglio, una biblioteca di oltre centomila volumi, una galleria d’arte, impianti sportivi coperti e persino un osservatorio astronomico protetto da una cupola rotante.
Il basamento orizzontale si componeva di un pronao ellittico monumentale, mentre la torre centrale emergeva fra volumi minori, il tutto rivestito in marmo bianco di Carrara per riflettere la luce e trasformarsi in un faro simbolico visibile a chilometri di distanza. Nel 1924 il progetto venne esposto nel Salone della Vittoria di Palazzo Chigi, suscitando reazioni contrastanti: il New York Times ne esaltò l’audacia, mentre la stampa tedesca lo definì un «eccesso di magniloquenza futurista». Ben presto emersero però criticità tecniche e finanziarie. Gli ingegneri avvertirono ostacoli alla ventilazione, alla fondazione e al sollevamento dei materiali, mentre Marcello Piacentini sollevò dubbi sull’impatto urbanistico di un colosso di quelle proporzioni. Le risorse del regime vennero dirottate su opere percepite come più urgenti, e la Mole Littoria rimase confinata alla dimensione teorica. Del sogno di Palanti sopravvivono oggi solo i disegni e alcune tavole pubblicate nel volume del 1926: testimonianze di un momento in cui l’architettura veniva elevata a strumento di propaganda e di eternazione di un potere in continua ascesa.